Antico Santuario

Tutto lascia pensare che l'antico santuario fu costruito contemporaneamente alla realizzazione del grande affresco della Madonna della Delibera. Le dimensioni di quest'ultimo (metri 1.70 x 1.75) e la sua pregevole fattura artistica mal si addicevano alla minuscola edicola di cui si è detto. Anche il santuario, perciò, sorse nei primi decenni del Quattrocento.

Un'ulteriore prova  della sua antichità si può ravvisare nella data incisa sulla campanella che, almeno fino al 1730, rimase sul campaniletto che svettava sul muro di cinta del chiostro, in fondo alla chiesa, accanto alla sagrestia. Sulla sua corona si leggeva: AVE MARIA GRATIA PLENA DOMINUS TECUM... ANNO MCCCCLXXXXI. Anno 1491: siamo ancora nel secolo XV.

Di detta chiesa è giunta sino a noi una dettagliatissima descrizione, per mano del notaio terracìnese Matteo Falasca, che in data 5 marzo 1730 compilò l'inventario dei beni del santuario. Alla chiesa si accedeva mediante due porte che si aprivano ai lati della medesima, e corrispondevano l'una all'altra. Ambedue erano ben protette, perché quella posta ad oriente, verso Terracina, immetteva nel chiostro, circondato da alte mura; l'altra comunicava con l'abitazione del custode. Molto probabilmente, perciò, l'unica porta destinata ai visitatori poteva essere aperta soltanto dal di dentro della chiesa, ovviamente dal custode. Significativamente, non si fa menzione di serrature: doveva infatti trattarsi d'una porta saldamente sprangata. Insomma, per quanto possibile, ci si era premuniti contro i ladri e - il santuario sorge non lungi dal mare - contro le scorrerie dei pirati.

Chi entrava per la porta aperta al pubblico, alla sua destra vedeva il presbiterio con l'altare centrale dedicato alla Madonna della Delibera, mentre altri due altari erano addossati alle pareti laterali: a destra quello della Madonna di Loreto e a sinistra l'altro di S. Filippo Neri. Il notaio non specifica se i detti altari fossero di legno oppure in muratura; nota invece che il presbiterio era ben protetto da balaustra e cancello di legno con serratura.
I due  altari  laterali  erano stati aggiunti in un  secondo tempo: quello di san Filippo, raffigurato in un quadro pendente dal muro, età sicuramente posteriore al 1622, anno della sua canonizzazione; l'erezione dell'altro, in onore della Madonna di Loreto, dipinta sul muro, va forse riconnessa all'incremento che, al culto della Madonna di Loreto, diede il marchigiano Sisto V, e quindi, grosso modo, rapportabile allo stesso tempo.
II presbiterio, di metri 6,70 x 5,35, era pavimentato con maioliche fiorate color turchino, laddove l'impiantito della chiesa, di metri 10,70 x 6,70, era « mattonato con mattoni ordinari ».

Ad un certo momento, il diligente notaio ci fa in qualche modo rivivere le sensazioni che sicuramente si impadronivano dell'animo del pio pellegrino venuto a venerare la Vergine. Non solo il presbiterio, ma tutta la chiesa era una piccola galleria d'arte, quasi certamente di carattere popolare. Egli scrive: la chiesa è « tutta a volta e tutta pittata, tanto nelle pareti laterali quanto nella volta medesima; ed in quella sopra li detti altari vi sono pittati ripartitamente li quattro evangelisti, ed in quella sopra il corpo d'essa chiesa il Padre Eterno, con diversi fiorami nel resto; e, nelle pareti laterali, li misteri della passione di Gesù Cristo, l'inferno e il paradiso, e diverse figure di santi ». Perciò, gli occhi del visitatore si imbattevano in un piccolo catechismo fatto di immagini, quanto mai opportuno per chi al santuario veniva per pregare e, tanto spesso, per ritrovare la pace dell'anima mediante il sacramento della penitenza.

La notizia, ahimè troppo sommaria, ci fa deplorare l'abbattimento del vecchio santuario. Ma, molto probabilmente, quando ciò avvenne, i dipinti della volta e delle pareti laterali erano già scomparsi. Infatti, nel corso della Sacra Visita al santuario, in data 21 aprile 1782, il vescovo Benedetto Pucilli ordinò di imbiancare la chiesa.
Un'ingiunzione incomprensibile se le pitture fossero state in buono stato di conservazione. L'umidità e, fors'anche, le infiltrazioni d'acqua da tetti trascurati, non mancavano di produrre guasti. Già nella Visita pastorale del 2 marzo 1715, il vescovo Bernardo Maria Conti aveva dovuto ordinare che si proteggesse contro l'umidità l'affresco della Madonna della Delibera.
Nel « corpo della chiesa » vengono segnalati un confessionale e un sepolcro, mentre ai « piedi » della medesima, « v'è la sua sagrestia con porta, serratura e chiave, et a canto a detta porta, sul muro, un campanello ordinario di bronzo, che si suona quando esce la Messa ».  

La sagrestia, esterna al corpo della chiesa da cui solamente vi si poteva accedere, era situata verso la città. In essa, oltre gli arredi sacri, era conservato un autentico piccolo « tesoro ». Il notaio specifica: « tre messali (uno novo e due vecchi) et un messaletto da morti; due calici, uno tutto d'argento e l'altro con coppa d'argento... Pianete numero sette, cioè due bianche (una di lanetta e l'altra di damasco), due di seta rossa, una di seta verde, un'altra di velluto paonazzo et un'altra di lanetta negra da morti... Veli da calice di seta, numero sette di diversi colori ». Ma gli oggetti d'argento (lampade, croci, corone, ex-voto, medaglie), per maggior sicurezza, erano custoditi in casa del cappellano don Donato Petrono.

Pavimento maiolicato, pitture, paramenti sacri, « pezzi » d'argento ed ex-voto sono senza dubbio un segno concreto della viva devozione che il popolo nutriva verso la Madonna della Delibera. A monte di ognuno di essi vi era un atto di fede e un sacrificio. Tutto era stato offerto per « devozione ». Ma si trattava pur sempre d'una parte (anche se la « religiosamente » più significante) di quel che i fedeli avevano offerto per assicurare la continuità del culto nel santuario mariano.  

Nell'inventario del notaio Matteo Falasca, l'elenco dei beni « mobili, stabili, semoventi, frutti, rendite, ragioni e pesi di qualsivoglia sorte della ven. chiesa della Madonna Ss.ma della Delibera » occupa una ventina di pagine. Esso fu compilato in seguito alla bolla In supremo apostolatus, con cui Benedetto XIII, in data 19 aprile 1728, assegnava i detti beni alla sagrestia della cattedrale di Terracina.
In questo provvedimento, destinato a segnare profondamente le vicende del santuario, bisogna forse ravvisare il riemergere d'una tendenza molto forte già nel Due e Trecento. Infatti, dalle Rationes decimarum dei detti secoli emerge come la vita ecclesiastica di Terracina faceva perno quasi esclusivamente sulla cattedrale. Di altri centri o chiese vi è appena menzione. Ma non bisogna dimenticare che Terracina, nei secoli passati, non solo era città di mare: la palude pontina ne faceva quasi un'enclave, tagliandola fuori dai contatti con gli altri centri. E così, sentendosi insicura (le incursioni dei pirati si protrassero fino al Settecento), era portata a rinchiudersi entro le sue mura. Il trasferimento dei beni del santuario alla sagrestia della cattedrale, oltreché, forse, una necessità, era un metterli in salvo, destinandoli al decoro del culto divino per la gioia della comunità dei fedeli: il frutto dei benefici, infatti, doveva essere impiegato per fornire di ricchi arredi sacri la sagrestia.  

Edificio e beni del santuario della Delibera erano di origine « laica ».
Ciò viene esplicitamente riconosciuto dal vescovo Alessandro Argoli nella lettera con cui, il 26 giugno 1540, conferisce il beneficio annesso alla cura del santuario al sacerdote « presentato » dal Comune. Un diritto di cui si continuava ad essere pienamente consapevoli. Infatti, il notaio Matteo Falasca, nel citato atto del 5 marzo 1730, nota esplicitamente: la chiesa « fu eretta a spese pubbliche e comuni, perché la medema è stata sempre De fare patronatus dell'ili.ma Communità di detta città di Terracina, perché da questa, per pubblico e generai Consiglio, s'è sempre eletto, nominato e presentato il beneficiato che, vita durante, ha goduto e posseduto il beneficio semplice d'essa, con tutti e singoli suoi beni, soddisfatto i pesi della medesima, governato e provisto in tutto e per tutto la medema chiesa d'ogni bisognevole ».  

Evidentemente, quella del santuario, era una pagina di storia di cui il terracinese Matteo Falasca andava orgoglioso, e perciò ci teneva a sottolineare che esso era espressione della fede e dei sacrifici di tutta la comunità, popolo e magistratura.